Musica / La funzione sociale del melodramma
L'Italia nell'immaginario collettivo, nazionale ed internazionale, viene riconosciuta come la patria della pizza, delle bellezze architettoniche, del buon clima, della Ferrari, della mafia, primato condiviso quest'ultimo con cinesi, giapponesi e sudamericani e soprattutto del Belcanto, definizione per l'appunto italiana che indica l'arte della tecnica vocale monodica, affermatosi nel tardo XVI secolo.
E' risaputo che si pone come inizio del melodramma la data del 6 ottobre 1600, anche se sia hanno notizie di rappresentazioni di favole pastorali già dal 1591, quando a Firenze venne messa in scena la favola drammatica Euridice su testo di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri; un importante contributo alla tecnica vocale e a un nuovo gusto estetico lo apportò Giulio Caccini, membro della Camerata de' Bardi, che nel 1601 pubblicò a Firenze il volume Le nuove musiche, collezione di monodie e canzoni per voce solista e basso continuo; la parte più importante del libro è probabilmente l'introduzione dove l'autore illustra lo scopo e la corretta esecuzione di una frase monodica in base alla sensibilità del tempo, che diverrà la base teorica per l'esecuzione del canto barocco influendo nella musica europea per circa 100 anni.
Ad ogni modo l'opera fa il suo ingresso nel mondo dei generi musicali nel '600 e per più di un secolo è destinata, come tra l'altro il teatro di parola, ad un pubblico di colti eruditi oppure per magnificare gli splendori delle corti; quindi possiamo definirlo come un fatto musicale essenzialmente privato. Le cose cambiano nel 1637, quando a Venezia nacque per l'opera il Teatro di San Cassiano, un teatro impresariale destinato a un pubblico pagante, gestito dalla nobile famiglia Tron. Altri ne seguirono presto in parecchie città d'Italia, e nella stessa Venezia, che arrivò a possederne contemporaneamente sedici:tra i quali il teatro di S.Moisé (dal 1639), dei SS. Giovanni e Paolo (1639), Novissimo (1641), di S. Apollinare (1651), di S. Luca o S. Salvador (1661). Le famiglie patrizie veneziane che ne finanziarono la costruzione o il riadattamento dandone poi la gestione ad impresari furono i Tron, i Vendramin, i Giustinian e i Grimani. Nacque così il teatro impresariale che determinò non pochi cambiamenti riguardo i contenuti e la struttura dell'opera.
Il teatro impresariale se era una novità per l'Italia, tralasciando in questa sede il fenomeno della coeva Commedia dell'Arte, non lo era per il resto d'Europa. In Inghilterra all'incirca dal 1570 nasce il teatro a pagamento aperto al pubblico; sarà proprio questo il terreno dove Shakespeare, Marlowe e Ben Jonson scrissero i loro drammi.
Tralasciando questi doverosi cenni storici, utili per inquadrare la nostra trattazione, sposterei la mia attenzione sul melodramma ottocentesco e sulla sua influenza nella società del tempo.
Alla sensibilità di un uomo del XXI secolo, l'opera appare come uno spettacolo di teatro musicale lungo e prolisso, perlopiù culla di "un atteggiamento antirazionalistico e antirealistico che l'opera esige" (Adorno) e che, sempre secondo Adorno, questo riflesso si è reso responsabile di aver creato un fossato tra l'opera e la società moderna. In poche parole una rappresentazione di altri tempi che non può più interpretare il sentire contemporaneo e che si può incasellare nel capitolo "archeologia musicale". Le convenzioni estetico-musicali sulle quali si basa non sono più comprese dalla maggior parte dei potenziali fruitori. A questo proposito, un grido d'allarme a favore di un rinnovamento dell'opera come spettacolo contemporaneo lo lanciò Pierre Boulez, che auspicò la venuta di un innovatore musicale sulle orme di Wagner. In realtà compositori dei nostri giorni che si sono dedicati all'opera ci sono stati; mi vengono in mente Mario Pagotto, Claudio Ambrosini, Luigi Nicolini o Franco Battiato. Ora, leggendo questi nomi, eccetto Battiato famoso per altri generi, gli altri tre, detto con il massimo rispetto, risultano sconosciuti perfino agli addetti ai lavori. A conferma delle tesi di Adorno. Non era certo questa la considerazione degli operisti del XIX secolo.
In
un paese come l'Italia, in cui gli analfabeti ufficialmente censiti erano il 78 per cento della
popolazione e non che una piccola parte del restante 22 per cento sapeva segnare soltanto la propria firma, il romanzo o la poesia
restavano fatalmente chiusi in un cerchio di fruitori ristretto. L'unico
mezzo artistico e immediato di diffusione delle idee era il teatro. Esso
rappresentava nel XIX secolo il contatto diretto col pubblico più vasto e riverberava la propria
influenza sulla società.
Il melodramma ottocentesco ha avuto il merito di essere compreso da larghe fasce di popolazione dell'epoca, essendo nella realtà tout court il teatro popolare italiano, come osserva Antonio Gramsci ne I quaderni dal carcere il quale sostiene che "il melodramma in Italia è il vero romanzo popolare", avendo, aggiungo io, la medesima funzione della televisione nella seconda metà del '900.
Il teatro nell'800 è un contenitore di tutta la società, con le dovute differenze di classe sociale: i palchi, generalmente di proprietà o affittati per la stagione, ospitavano la nobiltà nel secondo ordine, i professionisti o i banchieri nel primo e terzo ordine; la platea vedeva, seduti su panche, in prima fila i militari, la servitù o gli studenti; il loggione invece ospitava le classi popolari e gli intellettuali che spesso esprimevano il dissenso agli spettacoli facendo gazzarra, confusi tra la massa. Inoltre il teatro nella platea ospitava sovente veglioni e balli, altre occasioni non meno importanti di socialità.
Detto questo, è facilmente intuibile come le questioni politiche e le tensioni da esse provocate entravano nell'ambiente teatrale con estrema naturalezza.
Il cinema ci mostra, seppur in maniera romanzata, come si sviluppavano queste tensioni; ad esempio nella scena iniziale di Senso di Luchino Visconti, ambientato nella Venezia del 1866, alla vigilia della Terza Guerra d'Indipendenza, oppure nel film Sissi-destino di un imperatrice del 1957 dove si mostra la coppia reale che si scontra con lo sdegno degli aristocratici italiani, che rifiutano di presenziare al Teatro alla Scala al cospetto della coppia imperiale, inviando in segno di disprezzo la servitù.
Fotogramma scena iniziale del film "Senso" |
Il teatro si pone fin da subito come luogo del conflitto politico. Giuseppe Mazzini, nella sua Filosofia della musica (1836) percepì prontamente la centralità del melodramma nella cultura degli italiani e le potenzialità comunicative del mezzo, sottolineando soprattutto l'importanza dei cori, che fino ad allora avevano avuto una funzione marginale, rendendo il melodramma da manifestazione di affetti personali a espressione di una individualità collettiva, ovvero voce di un popolo.
Verdi accolse l'istanza creando cori che vennero ben presto adottati come simboli: "O Signore dal tetto natio", da I Lombardi alla prima crociata, "Fratelli, gli oppressi corriamo a salvar" dal IV Atto del Macbeth, il celebre "Va pensiero" dell'opera Nabucco o ancora "Si ridesti il leon di Castiglia" dall'Ernani.
Ma è con l’avvicinarsi del 1848 che gli spettatori italiani cercano sempre più, nel melodramma, occasioni per dare sfogo ai sentimenti patriottici: il teatro diventa sempre con maggiore frequenza il centro delle inquietudini civili, e gli incidenti si moltiplicano. Le manifestazioni si ripetono, nei teatri italiani, all’avvicinarsi del 1859: anche allora si ricercano nelle opere riferimenti espliciti all’attualità, anche allora ogni esortazione a prendere le armi e ad opporsi alla tirannia dell’oppressore scatena l’entusiasmo del pubblico. Un’interpretazione politica generalizzata investe il mondo del melodramma.
Non possiamo, quindi, non considerare come il mondo musicale e teatrale hanno rivestito il ruolo di canale privilegiato per l'espressione artistica, che come nel caso del Risorgimento italiano si è connotata come mezzo di trasmissione di ideali e nello specifico di intenzioni di indipendenza politica. Probabilmente, allo stato attuale, in un altra dimensione sociale e culturale, il ruolo che fu dell'opera è stato occupato dal cinema che ha addossato sulla dinamicità della pellicola la spettacolarità e la seduzione sensoriale espressa con tempi di azione adeguati alla nostra società sempre più multimediale e policentrica, dove è presente una crisi del concetto di comunità ed emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno. E questo è più vero in Italia, sempre meno patria della "coralità" e sempre più luogo del "solista", espressione dell'individualismo e dell'ideale dell'eroe, colui che forte della sua capacità persuasiva e decisionale cambia, o dovrebbe cambiare, le sorti della comunità.
Riferimenti Bibliografici:
T.W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi,1971
P. Petrobelli-F. Della Seta, Studi Verdiani Vol. 11, Parma 1998
C. Toscani, I cori verdiani nell'Italia del Risorgimento, Teatro La Fenice, 2008
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