Cinema / Sulla mia pelle: l'arroganza del potere

     Il cinema è decisamente il mezzo che meglio rappresenta il nostro tempo. Se il XVIII secolo trova la rappresentazione del suo stato nel teatro, pensiamo a Goldoni o alla nascita del dramma borghese, se il XIX secolo esprime le sue tensioni nel grande romanzo, e in Italia nel melodramma, il XX secolo incanala le sue nevrosi, altra parola molto cara al secolo scorso, attraverso il cinema, che diviene un medium, dove forse per la prima volta, la dimensione estetica e la dimensione comunicativa si trovano strettamente correlate.

    Altra prerogativa del cinema à quella di rappresentare, questo accade fin dalle origini, la storia, gli eventi del passato, che attraverso le immagini riprendono vita e vengono proposti allo spettatore ricostruiti, arricchiti con elementi che non traspaiono dalla consultazione dei documenti scritti. 

    Nel nostro caso specifico, trovo ben riuscita in questo senso la trasposizione cinematografica della vicenda che ha portato alla morte Stefano Cucchi. Il film è stato realizzato consultando gli atti giudiziari e secondo le informazioni avute dalla famiglia. Già il titolo risulta aderente alla vicenda, Sulla mia pelle, regia di Alessio Cremonini, che vede nel ruolo di Stefano un impareggiabile Alessandro Borghi e nel ruolo della sorella Ilaria una credibile Jasmine Trinca.

    Ciò che ho particolarmente apprezzato nella pellicola è stata la ricostruzione del personaggio di Stefano: Cucchi non era un santo, aveva precedenti penali, era stato in comunità di recupero in quanto tossicodipendente e era uno spacciatore, che il padre (interpretato da un ottimo Max Tortora) cerca a fatica di inserire in una vita consona facendolo lavorare presso il suo studio di geometra e acquistandogli un appartamento. Stefano Cucchi era purtoppo un ragazzo debole, schiavo di dipendenze e pure soggetto affetto da  epilessia.

    La ricostruzione, cronologicamente attendibile secondo le fonti giudiziarie, a mio parere vede il suo apice nella "luce", sia fotografica che metaforica, che sprigiona sulla tragica vicenda. La rivelazione che viene data allo spettatore non è delle più edificanti se rappresentanti delle istituzioni, come i carabinieri, organizzano un pestaggio in caserma, che avrà esiti fatali, nei confronti di un cittadino che ancora deve recarsi dal giudice per la convalida dell'arresto, se nessuno si rende conto della gravità della situazione in cui Stefano versa, se a una famiglia senza "santi in paradiso" vengono messi continuamente bastoni tra le ruote per poter vedere il figlio, al quale vengono negati i diritti del caso. Stefano era solo un "drogato 'e merda" come lo apostrofa uno dei carabinieri che lo pesta, questo emerge dai verbali, e questo lo sappiamo solo quando qualcuno ha cominciato a "collaborare". L'omertà e i depistaggi sono una pratica molto frequente in questo paese. Anche tra le Istituzioni. Rispettabilità e carriera vanno salvaguardate fino a tradire il giuramento fatto e screditare le Istituzioni. Il caso Cucchi non è un caso isolato provocato dalle solite "mele marce", ma bensì da un sistema avariato fino nel midollo, per carità, funzionari onesti che lavorano rispettando i dettami costituzionali esistono, ma è anche vero che quando ad un processo se ne aggiunge un' altro per depistaggio, inutile voltarci dall'altra parte e negare che qualcosa non funziona. "Ancora oggi nel 2020 nel reparto operativo dei carabinieri c'è qualcuno che passa gli atti a qualche imputato." Così ha esordito il procuratore Musarò in udienza, per poi proseguire, "Siamo stanchi di questi inquinamenti probatori che vanno avanti da 11 anni e vogliamo identificare gli autori."

    Il cinema, quindi, riesce, in questo caso, a porsi in una dimensione sociale e politica, dove, senza strizzare l'occhio alla morbosità, nel film non si mostrano atti di violenza fisica, la violenza è morale,  oserei dire "arroganza istituzionale", può fornire utili chiavi di lettura per approfondire, e allo stesso tempo può indurre lo spettatore, toccato in profondità, a consolidare o riconquistare un rapporto  diretto con l'analisi dei fatti di cronaca, che insieme a questo tipo di cinema fanno la storia e divengono in tal modo una fonte primaria.

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